COMMENTO DALLA FACULTY
Nel 2014, a circa 10 anni dall’introduzione della lenalidomide come farmaco per il trattamento del mieloma in recidiva, lo studio di fase III FIRST dimostra che l’utilizzo di lenalidomide, in combinazione con desametasone (Rd), quale regime di prima linea per il trattamento del paziente con mieloma di nuova diagnosi non candidabile a trapianto autologo, migliora la sopravvivenza globale (OS) rispetto alla tripletta del braccio di controllo melphalan, prednisone e talidomide (MPT), diventando così una delle combinazioni standard of care nel trattamento del paziente anziano assieme a bortezomib, melphalan e prednisone (VMP) e bortezomib, lenalidomide e desametasone (VRd). Cinque anni dopo, nel 2019, Facon et al. pubblicano sul New England Journal of Medicine (NEJM) i risultati dello studio randomizzato di fase III MAIA, in cui 737 pazienti con mieloma di nuova diagnosi non candidabili a trapianto autologo sono stati randomizzati a ricevere Rd o Rd in associazione all’anticorpo monoclonale anti-CD38 daratumumab (DRd). L’aggiunta di daratumumab alla combinazione Rd come terapia di prima linea si è tradotta in un aumento del tasso di remissioni complete (CR, 48% vs. 25%) e di pazienti con malattia minima residua negativa (MRD, 24% vs 7%) rispetto alla doppietta Rd, con una riduzione statisticamente significativa del rischio di morte o progressione (HR: 0.56; p<0.001). Tutti i sottogruppi di pazienti studiati (età, ISS, performance status, funzionalità renale e FISH), fatta eccezione per i pazienti con compromissione epatica, hanno beneficiato dell’aggiunta di daratumumab a rd, sebbene i pazienti ad alto rischio FISH sembrino derivarne un beneficio minore (HR:0.85) rispetto ai pazienti a rischio standard (HR: 0.49).
I risultati riportati dagli investigatori del MAIA si aggiungono a quelli precedentemente pubblicati da Mateos M.V. et al relativi allo studio ALCYONE che ha comparato VMP con o senza daratumumab, confermando il beneficio, quantomeno in termini di progression-free survival (PFS), che l’aggiunta di daratumumab alle combinazioni standard produce nel trattamento upfront del paziente anziano.
DRd, già approvato sia da FDA che da EMA, si candida ad essere uno dei regimi più utilizzati come terapia di prima linea nel paziente anziano.
I dati riportati nel lavoro pubblicato da Facon et al. si prestano ad alcune riflessioni.
In primis, il breve follow-up al momento della pubblicazione non ha permesso di evidenziare differenze significative di OS tra DRd e Rd; dato l’esteso utilizzo di daratumumab come spina dorsale della maggior parte delle terapie alla recidiva, in combinazione con immunomodulanti e inibitori del proteasoma, sarà quindi di fondamentale importanza verificare, con un follow-up più lungo, che il vantaggio del suo utilizzo in prima linea si estenda non solo alla PFS ma anche all’OS, come già accaduto nello studio ALCYONE.
Una seconda riflessione riguarda il paziente ad alto rischio citogenetico, in cui il beneficio dell’aggiunta di daratumumab è sì presente ma meno marcato rispetto al paziente a rischio standard (HR: 0.85 vs 0.49): questi dati sembrano indicare che il paziente ad alto rischio citogenetico continua a rappresentare un “unmet medical need” anche nell’era degli anticorpi monoclonali.
In ultimo, ci si può domandare se e come l’aggiunta di un terzo farmaco chemioterapico per il trattamento di pazienti impatti sulla sicurezza della terapia stessa. Sebbene l’incidenza di eventi avversi seri (SAE) e di interruzione del trattamento per eventi avversi sia comparabile nei due bracci, ad indicare che l’aggiunta di daratumumab non impatta negativamente sul profilo di sicurezza della combinazione Rd, si nota altresì nel braccio sperimentale un aumento dell’incidenza di neutropenia di grado 3-4 e dei tassi di infezioni di grado 3-4 (32% vs. 23%), in particolare di polmoniti (14% vs. 8%). Questi dati devono essere tenuti a mente e possono essere oggetto di studio per eventuali strategie antimicrobiche profilattiche.