COMMENTO DALLA FACULTY
Nonostante nelle ultime due decadi l’introduzione di nuovi farmaci all’interno delle strategie terapeutiche del Mieloma Multiplo (MM) abbia determinato un prolungamento significativo della sopravvivenza globale, i pazienti portatori di caratteristiche prognostiche sfavorevoli presentano ancora risposte di breve durata, frequenti recidive di malattia e riduzione degli outcomes di sopravvivenza. Attualmente, le principali caratteristiche che configurano una malattia ad alto rischio alla diagnosi sono rappresentate da: stadio ISS (International Staging System) III; presenza di anomalie citogenetiche FISH quali del(17p), t(4;14), t(14;16), t(14;20), gain 1q, o mutazioni di p53; elevati livelli di LDH; presenza di malattia extra-midollare. Inoltre, studi più recenti hanno introdotto il concetto di valutazione dinamica del rischio. Infatti, la malattia minima residua (MRD) misurabile a livello midollare o la persistenza di aree di ipercaptazione alla PET/ CT con FDG dopo l’ottenimento di una risposta iniziale alla terapia risultano tra i fattori più importanti predittivi di prognosi sfavorevole.
L’eterogenea popolazione dei pazienti affetti da MM ad alto rischio (HRMM) è sottorappresentata in quasi tutti gli studi clinici e solo pochissimi studi prospettici sono stati eseguiti esclusivamente nei pazienti con HRMM. Per tale motivo risulta difficile identificare strategie di trattamento adeguate al rischio.
Le combinazioni di tre farmaci comprensivi di inibitori del proteasoma, agenti immunomodulanti e corticosteroidi e il trapianto autologo di cellule staminali emopoietiche (ASCT) restano i pilastri della terapia dei pazienti con HRMM.
Lo studio di fase III SWOG S0777, che ha confrontato l’utilizzo della tripletta bortezomib/lenalidomide/dexamethasone (VRd) versus lenalidomide/dexamethasone (Rd) nei pazienti con MM di nuova diagnosi (NDMM) senza intenzione di ASCT immediato, ha dimostrato un significativo prolungamento della mediana di PFS e OS nei pazienti trattati con VRD, anche nel subset dei pazienti in stadio ISS III e portatori di anomali citogenetiche di alto rischio (PFS mediana di 38 mesi per VRd vs 16 mesi per Rd). Tuttavia, la valenza di tali risultati è limitata dal numero esiguo di pazienti con HRMM arruolati nel trial clinico.
Recentemente sono stati pubblicati da Usmani SZ e collaboratori (Lancet Haematol. 2021 Jan) i risultati dello studio randomizzato di fase II SWOG-1211, uno tra i primi trials atti ad esplorare l’aggiunta dell’anticorpo monoclonale elotuzumab alla tripletta VRd come terapia di prima linea dei pazienti con HRMM.
Elotuzumab è l’anticorpo monoclonale umanizzato anti-SLAMF7, approvato per il trattamento dei pazienti con MM ricaduto/refrattario in associazione a lenalidomide/desametasone (eloRD) e pomalidomide/ desametasone (eloPD).
Nello studio SWOG-1211 sono stati arruolati complessivamente 100 pazienti con NDMM ad alto rischio randomizzati a ricevere 8 cicli di terapia di induzione con VRd (n=52) o VRd con l’aggiunta di elotuzumab (n=48), seguiti da terapia di mantenimento con dosi attenuate dei farmaci. I pazienti randomizzati a ricevere elotuzumab nella terapia di induzione, proseguivano l’anticorpo monoclonale anche durante la terapia di mantenimento. L’endpoint primario dello studio era la PFS.
I pazienti sono stati classificati come HRMM per la presenza di gain o ampl1q21 (47%), del17p (37%), t (14,16 11%), t (14;20 5%), profilo genomico (GEP) di alto rischio (9%), leucemia plasmacellulare (7%) ed elevati livelli di LDH (4%). Il 17% dei pazienti aveva 2 o più caratteristiche di alto rischio.
A un follow-up mediano di 53 mesi, non è emersa alcuna differenza significativa nella mediana di PFS tra il braccio VRd rispetto a VRd-elotuzumab (rispettivamente 33.6 vs 31.5 mesi; HR = 0.968; p=0.45). Inoltre, anche l’analisi della PFS per le diverse categorie di alto rischio non ha rivelato differenze statisticamente significative tra i gruppi di trattamento. Allo stesso modo, non sono state osservate differenze significative in termini di OS (mediana non raggiunta per il gruppo VRd e 68 mesi per il gruppo VRd-elotuzumab; HR=1.279; p=0.48).
Il profilo di tossicità è risultato sostanzialmente simile nei due gruppi a confronto eccetto per una maggiore frequenza di infezioni e neuropatia sensitiva osservate tra i pazienti trattati con elotuzumab.
Dunque, secondo i risultati dello studio SWOG-1211 l’aggiunta dell’anticorpo monoclonale anti-SLAMF7 alla terapia di induzione e mantenimento con VRd non migliora l’outcomes dei pazienti con caratteristiche prognostiche sfavorevoli. Nonostante l’endpoint primario non sia stato raggiunto, il trial SWOG-1211 resta comunque uno studio importante sia per essere uno tra i primi trials disegnati specificatamente per i pazienti con HRMM sia perché i risultati ottenuti in termini di PFS supportano il ruolo della terapia di mantenimento basata sulla combinazione di inibitori del proteasoma e agenti immunomodulanti nei pazienti con HRMM.
Dati recenti indicano un potenziale beneficio dell’immunoterapia con anticorpi monoclonali anti-CD38 nel trattamento dei pazienti con HRMM, con risultanti talora contrastanti.
Gli studi di fase III ALCYONE, MAIA e CASSIOPEIA hanno valutato l’efficacia della combinazione di daratumumab con regimi backbone rappresentati rispettivamente da bortezomib/melphalan/prednisone, Rd e bortezomib/thalidomide/desametasone nei pazienti con NDMM. Sebbene questi trials abbiano raggiunto i loro endpoints primari, l’aggiunta di daratumumab non ha apportato un significativo beneficio nel piccolo gruppo di pazienti con caratteristiche citogenetiche di alto rischio arruolati in ciascuno studio (ALCYONE, 14%; MAIA, 14%; CASSIOPEIA, 15.5%). Invece, una recente metanalisi condotta da Giri S e collaboratori (JAMA Oncol 2020) ha evidenziato come l’aggiunta di daratumumab ai regimi backbone della terapia di prima linea del MM sia in grado di migliorare la PFS dei pazienti con HRMM rispetto al braccio di controllo, anche se non nella stessa misura dei pazienti definiti a rischio citogenetico standard.
In futuro, i nuovi approcci immunoterapici (CAR-T cells, anticorpi monoclonali bispecifici o coniugati) e le diverse molecole (venetoclax, selinexor ecc), attualmente in sviluppo clinico per i pazienti con MM recidivato/refrattario, potrebbero assumere un ruolo di rilievo anche nella terapia di prima linea dei pazienti con HRMM.